@-La situazione delle pensioni in Italia continua a destare preoccupazione, per la bassa entità degli importi degli assegni pensionistici.
Le riforme degli ultimi decenni, a partire dalla riforma Dini del 1995-1996 e poi dalla riforma Fornero, hanno introdotto un sistema di calcolo contributivo che, nel lungo periodo, rischia di penalizzare fortemente i futuri pensionati. In assenza di fondi per interventi correttivi, si profila uno scenario in cui molti pensionati saranno costretti a tornare al lavoro per integrare il reddito.
Secondo i dati più recenti dell’Osservatorio statistico INPS aggiornati al 2 aprile 2025, l’importo medio lordo delle pensioni si attesta a circa 1.229 euro mensili. La situazione è più favorevole per gli uomini (1.486 euro medi) rispetto alle donne, che percepiscono poco più di 1.000 euro (1.011 euro). Questi valori, calcolati sui singoli assegni, non considerano eventuali pensioni multiple percepite da uno stesso individuo, ma indicano comunque un problema diffuso di adeguatezza economica.
Il sistema contributivo, nato per rendere sostenibile la spesa previdenziale in un contesto demografico mutato, si basa esclusivamente sui contributi versati nel corso della carriera lavorativa, che a loro volta dipendono dalla retribuzione percepita. In un mercato del lavoro sempre più caratterizzato da stipendi bassi, precarietà e lavoro irregolare, il rischio è che molti pensionati percepiscano assegni inferiori a 1.000 euro mensili. Inoltre, chi ha iniziato a versare contributi solo dopo il 31 dicembre 1995 non beneficia nemmeno dell’integrazione al trattamento minimo, aggravando ulteriormente la condizione di povertà pensionistica.
La situazione è ulteriormente complicata dalle tendenze demografiche: la popolazione pensionata è in crescita, mentre quella dei lavoratori attivi diminuisce a causa del calo della natalità. Le proiezioni ISTAT prevedono che entro il 2050 ci saranno oltre 20 milioni di pensionati a fronte di poco più di 26 milioni di occupati, un rapporto che mette a dura prova la sostenibilità del sistema a ripartizione.
La mancanza di risorse per riformare il sistema pensionistico
Nonostante il problema sia noto da tempo, le risorse economiche disponibili per una riforma strutturale del sistema pensionistico sono estremamente limitate. Il sistema contributivo, come sottolineato anche dall’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi, è ormai irreversibile. Questo significa che non si potrà tornare indietro rispetto al calcolo basato unicamente sui contributi versati.
L’importo complessivo annuo delle pensioni erogate dall’INPS ammonta oggi a circa 254 miliardi di euro, una cifra enorme che pesa molto sul bilancio pubblico senza però tradursi in assegni pensionistici sufficienti per mantenere un tenore di vita dignitoso. La Commissione Europea ha ribadito che senza correttivi, il sistema pensionistico italiano rischia di produrre assegni troppo bassi per garantire una vecchiaia decorosa.
La previdenza complementare, ossia i fondi pensione integrativi, rappresenta un’opportunità per aumentare l’importo delle pensioni, ma attualmente coinvolge solo circa un terzo dei lavoratori. Chi avrebbe maggior bisogno di integrazione, spesso, non ha la possibilità economica di aderire a questi strumenti.
Di fronte a pensioni insufficienti per vivere dignitosamente, molti pensionati si trovano di fronte a un bivio: ridurre drasticamente le spese familiari o tornare a lavorare. La normativa vigente permette, salvo alcune eccezioni come nel caso di Quota 103, di cumulare il reddito da pensione con quello da lavoro senza penalizzazioni. In tal modo, è possibile percepire la pensione e contemporaneamente continuare a lavorare o riprendere un’attività lavorativa.
I contributi versati durante questa nuova attività lavorativa potranno addirittura dare diritto a un supplemento di pensione in futuro. Tuttavia, questa situazione rappresenta un fallimento per il sistema di welfare italiano, che dovrebbe garantire una vecchiaia serena dopo una vita di lavoro.
Il ritorno massiccio al lavoro di pensionati rischia inoltre di comprimere ulteriormente i salari e di sottrarre opportunità occupazionali ai giovani, aggravando il problema del ricambio generazionale nel mercato del lavoro e alimentando un circolo vizioso di precarietà e basso reddito.
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